In molte parti del mondo il problema non è solo trovare nuova acqua, ma farlo senza spendere tonnellate di energia. Da anni la ricerca guarda a una fonte spesso ignorata: l’umidità dell’aria, anche nei climi più aridi, dove materiali “spugna” riescono comunque a catturare molecole d’acqua disperse nell’atmosfera.
Il collo di bottiglia è sempre stato lo stesso: far uscire quell’acqua. Nella maggior parte dei sistemi per la raccolta d'acqua dall'atmosfera, il materiale assorbe vapore, ma per liberarlo serve calore: si scalda la “spugna”, l’acqua evapora e viene poi ricondensata. Un processo lento, che può richiedere ore o giorni e soprattutto molta energia, legata al limite fisico dell’evaporazione.
Il nuovo lavoro del MIT vuole sciogliere questo nodo: un team guidato dalla ricercatrice Svetlana Boriskina ha sviluppato un dispositivo ultrasonico che non riscalda il materiale, ma lo fa vibrare. In pratica, un attuatore a forma di anello ceramico, collegato a un generatore di ultrasuoni, trasmette onde acustiche oltre i 20 kHz al “sorbente” carico d’acqua. Le vibrazioni rompono i deboli legami che trattengono le molecole sulla superficie interna del materiale e le gocce vengono letteralmente scrollate via, raccolte da una serie di piccoli ugelli in un serbatoio.
Nei test in laboratorio, condotti su campioni grandi pochi centimetri, il sistema è riuscito a asciugare completamente il materiale in un arco temporale compreso tra i due e i sette minuti, contro le decine di minuti o le ore richieste dai metodi termici tradizionali. I ricercatori stimano che, a parità di materiale utilizzato, l’estrazione tramite ultrasuoni sia fino a 45 volte più efficiente dal punto di vista energetico rispetto al solo calore del Sole, con un consumo inferiore all’entalpia di evaporazione dell’acqua: in pratica, viene superato il limite teorico che frena gli approcci basati sul riscaldamento.
Il dispositivo non è passivo: ha bisogno di una piccola alimentazione elettrica. Ma il team immagina moduli delle dimensioni di una finestra, alimentati da pannelli solari integrati che funzionano in cicli automatici: il materiale assorbe umidità dall’aria, un sensore rileva quando è saturo, l’attuatore si accende per pochi minuti, libera l’acqua e il ciclo ricomincia più volte al giorno.
Siamo ancora nella fase di prototipo e restano diverse questioni aperte, come la scalabilità industriale, i costi, la resa in condizioni reali, la gestione di impurità e la manutenzione. Ma l’idea di sostituire il calore con vibrazioni meccaniche ad alta frequenza sposta l’asticella dell’atmospheric water harvesting: se le prestazioni promesse saranno confermate fuori dal laboratorio, questa tecnologia potrebbe rendere molto più competitivi – anche economicamente – i sistemi decentralizzati per produrre acqua potabile nelle aree prive di infrastrutture idriche.